martedì 23 agosto 2011

Beni sequestrabili al boss senza prova di fonte illecita


MILANO. Per il sequestro di beni appartenenti ad affiliati mafiosi non è necessaria la dimostrazione del nesso di causalità tra la presunta condotta da 416-bis e l'illecito profitto. In sostanza, il giudice può applicare la misura cautelare reale su qualsiasi bene nella disponibilità del presunto affiliato, senza dover ricondurre la proprietà all'attività illecita contestata, essendo invece sufficiente la sola sproporzione tra il reddito ufficiale (ammesso ci sia) e la disponibilità di mobili o immobili.
Non solo: l'indagato non può contestare l'ordinanza di sequestro, e ottenere la liberazione del bene, opponendo un titolo d'acquisto formalmente ineccepibile: ciò che conta, invece, è «fornire una esauriente spiegazione in termini economici di una derivazione dei beni da attività consentite dall'ordinamento».
È la Seconda sezione penale della Cassazione (32563/11, depositata il 19 agosto) a riordinare i principi giurisprudenziali del sequestro preventivo previsti all'articolo 12 del dl 306/92 (misure urgenti di contrasto alla criminalità mafiosa). La Corte si è espressa sul ricorso di un indagato per 'ndrangheta residente nel Milanese, a cui nel febbraio scorso il Gip aveva bloccato la quota coniugale di proprietà di casa oltre a un box per auto.
Secondo l'arrestato, il giudice non aveva correttamente valutato la sufficienza del suo stipendio ufficiale (tra mille e 1.500 euro al mese) per sostenere la rata mensile del mutuo stipulato nel 1999 (262 euro), e inoltre sarebbe stata ignorata la circostanza che il denaro per l'acquisto era stato versato dalla moglie comproprietaria.
La Corte ha invece ribadito il principio – che pure riguarda una fase più avanzata del processo – secondo cui il giudice «non deve ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni confiscati e il reato per cui ha pronunciato la condanna e nemmeno tra questi beni e l'attività criminosa del condannato», bastando invece la prova della «esistenza di una sproporzione tra il valore economico dei beni di cui il condannato ha la disponibilità ed il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica, e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza delle cose».

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