A chi il 10 febbraio
urla “...e allora le foibe?”
Non bisogna rispondere semplicemente tirando fuori numeri.
Ristabilire la verità storica, certo, significa anche questo. Ma l’idea di
combattere un’operazione di revisione della storia che mira ad equiparare
Parlare del numero dei morti è sempre un’operazione delicata, e
prima o poi si finisce sempre a dire che, al di là del numero, i morti sono
tutti uguali. Una posizione comoda e certo diffusa. Certo, è semplice affermare
che “i morti sono tutti uguali”, una
volta che sono già morti.
Ma a volte, se si vuole essere davvero obiettivi, bisognerebbe
anche chiedersi cos’hanno fatto in vita, prima di morire. Vittime e carnefici
restano tali anche dopo essere morti e negare questo in nome di una “memoria” costruita ad hoc dai neofascisti
(e accolta negli ultimi anni anche dalla sinistra), significa negare la storia.
Come ha detto Alessandra Kersevan, storica del confine orientale: «Commemorare i morti nelle foibe significa
sostanzialmente commemorare rastrellatori fascisti e collaborazionisti del
nazismo. Per gli altri morti, quelli vittime di rese dei conti o vendette
personali, c’è il 2 novembre».
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