5
gennaio nel ricordo di Pippo Fava e Peppino Impastato
Oggi avrebbe 70 anni.
Molti si chiedono cosa farebbe oggi, quale strada avrebbe percorso, con chi si
sarebbe schierato.
Cercare di dare risposte è solo un'esercitazione della fantasia.
Peppino era ed è rimasto quello che è, quello che fu, un contestatore del
sistema di potere che ci soffoca, un comunicatore, uno che aveva un progetto
politico ben chiaro, la realizzazione di una società senza ingiustizie e senza
differenze di ricchezza, cioè di una società di uguali, in cui non solo la
legge è uguale per tutti, ma anche la vita. E se uguaglianza non significa
banalità, conformismo, assuefazione ma, al contrario, possibilità di sviluppare
le proprie capacità, allora questo è comunismo. È inutile nascondersi dietro il
dito, dire che Peppino era uno che lottava contro la mafia e basta, pregare per
lui o farne un santino cui esprimere devozione e ammirazione.
Tanti hanno la brutta abitudine di dire: "Io sono Saviano",
“Io sono Charlie”, “Io sono Pino Maniaci”: mi sembra sia tutto fumo, perché
ognuno è quello che è e dovrebbe restare tale. Se c'è qualcuno che se la sente,
dica pure: "Io sono Peppino Impastato", purché abbia poi il coraggio
di aggiungere "Io sono comunista", come lo era e pensava di esserlo
Peppino. Dopo di che, fare gli auguri a una persona morta nel 1978 ha solo senso se la
sentiamo ancora vicina a trasmetterci il suo flusso di energia e se riteniamo
che le sue idee rivoluzionarie siano una base di lotta per ribaltare le
perversioni in cui la struttura capitalistica della società stritola l'essenza
di ognuno di noi. Ma questo lo dice anche il papa.
5 Gennaio 1984: per una di quelle coincidenze strane, oggi ricorre
anche il 34° anniversario della morte di Giuseppe Fava, il più grande
giornalista siciliano, ucciso, anche lui come Peppino, "perchè parlava
troppo".
Si noti che il numero "48", data di nascita di Peppino
è, capovolto, il numero "84", data della morte di Fava e che si
chiamano entrambi Giuseppe. Peppino parlava, Pippo scriveva "troppo"
direttamente sul suo splendido giornale “I Siciliani”.
Ebbe la fortuna di trovare un gruppo di collaboratori, giornalisti
nati, che sapevano fare le inchieste, che avevano cominciato a leggere
lucidamente i meccanismi perversi di questa società e sapevano illustrarli e
denunciarli. Sia Peppino che Pippo Fava sono stati gli antesignani del modo di
fare giornalismo libero, senza padroni e senza censure: farlo in Sicilia non è
facile.
Qua vige, da secoli, per volontà della mafia, e, più in generale
per decisione dei cosiddetti “padroni del vapore”, la legge del silenzio, “mutu cu sapi u iocu” (chi conosce i
giochi stia zitto), l'omertà, “nun
sacciu, nun vitti, nun ntisi” (non so, non ho visto, non ho sentito): chi
dice in faccia come stanno le cose diventa un nemico del sistema di potere che
controlla tutte le informazioni e decide quali far circolare, grazie ai suoi
giornalisti lecchini.
Fava ha dato il suo grande messaggio, che ognuno di noi dovrebbe
scrivere all'ingresso della sua porta, sul frontone della stanza da letto,
sullo specchio del bagno, dentro il portafogli o direttamente sulla sua testa:
"A che serve vivere, se non si ha il coraggio di
lottare?"
Qualche giorno dopo la morte di Pippo Fava, Salvo Vitale (compagno
di Peppino) ha scritto questa poesia:
Per Giuseppe Fava
Dai cadaveri viventi il solito “Cu ci u faceva fari?”,
e continueremo a morire,
a vederci rubare i momenti migliori della nostra vita
perché non abbiamo accettato le regole della sopraffazione,
perché abbiamo voluto salvare la dignità per gli altri.
Continueremo in solitudine la nostra fragile lotta contro i corvi del potere
senza rinunciare alla certezza del giusto:
sulla resa di pochi è la sconfitta di tutti.
Possiamo ancora farcela:
se questo venir fuori, candidarsi a bersaglio,
servisse come seme per la ribellione dei vinti,
moriremmo con meno angoscia…
e continueremo a morire,
a vederci rubare i momenti migliori della nostra vita
perché non abbiamo accettato le regole della sopraffazione,
perché abbiamo voluto salvare la dignità per gli altri.
Continueremo in solitudine la nostra fragile lotta contro i corvi del potere
senza rinunciare alla certezza del giusto:
sulla resa di pochi è la sconfitta di tutti.
Possiamo ancora farcela:
se questo venir fuori, candidarsi a bersaglio,
servisse come seme per la ribellione dei vinti,
moriremmo con meno angoscia…
(Pubblicato in: “Era di passaggio” di Salvo
Vitale - Navarra editore)
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