20 anni,
questo è il tempo trascorso da quando la mafia ha alzato il tiro in modo deciso
e cruento contro lo Stato, lo stesso Stato che non esitò un attimo ad
identificare e rinchiudere per sempre in carcere tutti i mandanti,
fiancheggiatori ed esecutori di stragi che non hanno precedenti nel mondo
occidentale….
Se fosse andata così, a 20
anni di distanza questa storia sarebbe raccontata nei libri di storia come un
capitolo da evidenziare insieme a quelli che testimoniano la forza positiva e
volontà decisiva dei popoli di riscattarsi, di liberarsi dalle barbarie, dalle
oppressioni: le lotte partigiane, le rivoluzioni, i movimenti rivoluzionari non
violenti per la pace, contro il colonialismo, contro il
razzismo…
Questa volta non è andata
così, quella che si racconterà è una storia vergognosa di mascalzoni prezzolati
ancorchè uomini dello Stato, che hanno cercato ed intavolato trattative con un
branco di assassini.
Mettetela come vi pare ma
alla chiusura di 4 anni di indagini, la magistratura inquirente di Palermo ha
individuato 12 persone che sarebbero responsabili di questo crimine, fra cui
uomini delle istituzioni:
Calogero Mannino: parlamentare,
Deputato dal 1979 al 1992, ex sottosegretario al Tesoro, ex Ministro della
Repubblica in ben 6 Governi;
Nicola Mancino:
già vicepresidente del Consiglio superiore
della magistratura, già ministro dell'Interno e presidente del Senato, 2 volte
presidente della Giunta Regionale Campana;
Marcello Dell’Utri: attualmente
Senatore della Repubblica, stretto collaboratore di Silvio Berlusconi sin dagli
anni settanta, socio in Publitalia '80 e dirigente Fininvest; nel 1993 fondò con
lui Forza Italia. Il 29 giugno 2010 è stato condannato presso la Corte d'appello di Palermo a
sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa; ha
patteggiato una pena di due anni e tre mesi per frode
fiscale.
Antonio Subranni: Generale dei
Carabinieri, è stato comandante del ROS dei Carabinieri dal 1990 al 1993,
nominato maggiore nel 1978, divenne comandante del Reparto operativo del comando
provinciale di Palermo. Per questo indagò (depistando le indagini), sulla morte
di Peppino Impastato, che indirizzò
verso l'ipotesi terroristica, invece che mafiosa. Da colonnello comanda poi il
gruppo provinciale di Palermo. Nominato generale, nel dicembre 1990 divenne il
primo comandante del Raggruppamento Operativo Speciale (Ros) dell'Arma, appena
costituito con i 27 nuclei anticrimine territoriali dei CC. Gli uomini del ROS,
sotto il suo comando, catturarono Totò Riina guidati dal capitano Ultimo,
omettendo di perquisire
nell’immediatezza la sua abitazione-covo a Palermo. Agnese Borsellino,
moglie del giudice Paolo Borsellino, rivela che il marito poco prima di essere
ucciso le disse: "Ho visto la mafia in
diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu"
(affiliato alla mafia), ma il generale si è dichiarato estraneo alle accuse e il
gip di Caltanissetta nel maggio 2012 ha archiviato il procedimento.
Nel 1994 è nominato generale di divisione e va in congedo con il massimo grado:
generale di Corpo d'Armata.
Mario Mori:
generale dei Carabinieri, è stato
comandante del ROS dei Carabinieri e direttore del SISDE (il servizio segreto
italiano). Mori è stato rinviato a giudizio dalla procura di Palermo insieme a
Sergio De Caprio, entrambi furono poi prosciolti dall'accusa di favoreggiamento
nei confronti di “cosa nostra”. L'indagine era stata avviata dalla procura per
accertare gli eventi che avevano portato alla ritardata perquisizione del "covo"
di Totò Riina. Solo 18 giorni dopo si scoprì che i Carabinieri all’insaputa
della Procura avevano omesso di presidiare il sito: Nel frattempo il "covo" era
stato ormai abbandonato dalla famiglia di Riina e completamente
svuotato.
Giuseppe De Donno generale dei Carabinieri che insieme a Subranni e Mori,
dopo avere avviato i contatti con don Vito Ciancimino (ex sindaco di Palermo),
avrebbe favorito “lo sviluppo della
trattativa fra lo Stato e la mafia, attraverso reciproche parziali rinunce”.
Da una parte cosa nostra con “la rinuncia
alla prosecuzione della strategia stragista”, dall'altra i rappresentanti
delle Istituzioni con “la rinuncia
all’esercizio dei poteri repressivi dello
Stato”.
I REATI:
Ai capimafia indagati i pm
contestano il reato di violenza o minaccia a Corpo politico
dello Stato. Stessa accusa viene fatta a Calogero Mannino, già processato e
assolto con sentenza definitiva dal reato di concorso in associazione mafiosa e
al senatore Dell'Utri.
Di violenza o minaccia a
Corpo politico dello Stato rispondono anche l'ex capo del Ros Antonio Subranni, il suo vice
dell'epoca Mario Mori e l'allora
capitano Giuseppe De Donno. "Hanno agito per turbare la regolare attività
dei corpi politici dello Stato - si legge nell'atto d'accusa -. Hanno agito in concorso con l'allora capo
della Polizia Parisi e il vice
direttore del Dap Di Maggio,
deceduti".
Per Massimo Ciancimino, invece, il reato
contestato è il concorso in associazione mafiosa e di
calunnia aggravata nei confronti dell'ex capo della Polizia, Gianni
De Gennaro. Nicola Mancino, nel '92 al dicastero dell'Interno, risponde di falsa testimonianza.
Nell'indagine sono finiti anche l'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso,
l'ex capo del Dap Adalberto Capriotti e l'europarlamentare dell'Udc Giuseppe
Gargani: per loro l'accusa è di false informazioni al pubblico
ministero ma l'avviso di conclusione indagini non è stato
notificato. La legge prevede che l'inchiesta, in questo caso, sia bloccata fino
alla definizione in primo grado del processo principale, quello, appunto, sulla
trattativa.
Tutto è bene quel che
finisce bene? Forse.
L'avviso conclusivo delle
indagini non e' stato firmato né dal procuratore capo, Francesco Messineo, né
dal sostituto Paolo Guido. Il primo ha affermato che la sua firma “non è
obbligatoria”, il secondo semplicemente ha espresso un “dissenso rispetto alla
linea portata avanti dal procuratore aggiunto Antonio
Ingroia.....”
Di certo le dichiarazioni
di Ingroia sono intrise di una verità che fa accapponare la
pelle:
“… fa
ancora più impressione sapere che mentre i mafiosi uccidevano e seminavano morte
e terrore con le bombe, c'era qualcuno dello Stato che trattava la tregua dietro
le quinte". “La mafia - ha
proseguito il magistrato - contrariamente
ai cliché e ai luoghi comuni, che la intendono come antistato, non è antistato,
ma ha una relazione organica e stabile con gli apparati, con le classi dirigenti
del nostro Paese, locali e nazionali, e quindi in questo ambito, l'alternarsi di
momenti di guerra e momenti di pace sono in realtà una sorta di braccio di ferro
interno al blocco e al sistema di potere che ha governato il nostro Paese in
senso economico, sociale e politico".
"La verità è che
tutta la storia del confronto fra mafia e Stato non è una storia di guerra, ma
di tregue e trattative. Lo Stato italiano, soltanto in brevi periodi e brevi
parentesi in cui si sono create emergenze nazionali ed emozioni collettive
all'indomani della stragi, ha creato una legislazione forte ed efficace. Ma
erano semplicemente delle norme tampone - ha concluso Ingroia - mentre dietro le quinte già ci si dava da
fare per stipulare una nuova tregua, un nuovo patto di
connivenza"….
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