Gli
eroi se ne vanno, gli arrabbiati piangono…
Questo articolo è stato pubblicato
ormai 11 anni fa su Liberazione e vuole essere un ricordo non solo di un gruppo
musicale fra i migliori che abbiano mai calcato le scene italiane, (il migliore
probabilmente), ma la foto di un’epoca lontana, dimenticata e mal raccontata
per mille ragioni. Un’epoca ed una storia che hanno ancora molto da dire.
Stefano
Galieni Pubblicato il 13 giu 2020
Trent’anni fa scompariva “Il maestro della voce” e il
riflusso inghiottiva una generazione….
“Nei tuoi occhi c’è una luce/ che riscalda la mia mente/ con il suono
delle dita/ si combatte una battaglia/ che ci porta sulle strade/ della gente
che sa amare”.
Versi di una canzone, ripresa poi
negli anni ma che nessuno ha mai cantato come Demetrio Stratos, che nessuno ha mai suonato come gli Area,
forse il miglior gruppo musicale mai cresciuto in Italia. Il titolo della
canzone ricorreva nelle tempeste degli anni Settanta come una meteora, un sogno
a cui continuare a guardare, “Gioia e rivoluzione”.
14 giugno 1979, piove a Milano, di
quella pioggia plumbea che a tratti sembra dare tregua e che poi riprende
incessante. Piove sui volti e sui corpi di sessantamila persone radunate
all’arena civica, per una speranza che si era trasformata in un addio.
Una storia ancora difficile da
mandare giù: Demetrio Stratos e gli Area erano divenuti in pochi anni,
l’emblema stesso di una militanza non rituale, della capacità propria della
musica, come delle arti, di toccare corde profonde, testi intensi e carichi di
allusioni, musiche frutto di infinite contaminazioni, la scelta di stare sul
palco alla stessa maniera di cui si andava in piazza, ma con la voglia perenne
di rompere schemi, consuetudini, retoriche. Ares Tavolazzi al basso, Patrizio
Fariselli alle tastiere, Giulio
Capiozzo alla batteria, diventano gli assi portanti del gruppo, nato nel
1972, ma sono numerosi i musicisti che hanno attraversato questa singolare
esperienza musicale e politica.
E poi la voce di Demetrio,
qualcosa che arrivava da un mondo ignoto, figlia del suo essere nomade,
partorita dal Mediterraneo. Demetrio Stratos era nato ad
Alessandria d’Egitto il 22 aprile del 1945, da genitori greci, sin da piccolo
inizia a studiare pianoforte e fisarmonica al conservatorio.
Dopo il colpo di stato di Nasser,
la famiglia lo aveva mandato a studiare a Cipro, ma nel 1962 era a Milano,
iscritto ad Architettura. Ma la musica prima e la politica poi, lo assorbono
rapidamente. Soul, rhytm and blues, rock, suoni senza confini, world
music diremmo oggi, mano mano diviene cosciente dei propri mezzi vocali.
Un periodo beat, con “I
Ribelli” e poi finalmente gli “Area” e la casa discografica che
tenta di rompere il dominio delle major la “Cramps”. Con gli Area i testi
diventano chiaramente militanti, il gruppo sostiene i gruppi della sinistra
radicale di allora, le cause internazionaliste, viaggia nei festival della
gioventù in mezzo mondo e ogni volta torna più ricco di sonorità e di
contenuti.
Dischi di impatto forte Arbeit macht frei , Caution
Radiation Area , Crac , il live Are(a)zione , Maudits
fino a 1978, Gli Dei se ne vanno gli arrabbiati restano , per citare i
più noti.
Ma l’esperienza degli Area,
nonostante la vasta risonanza internazionale va stretta a Demetrio che da tempo
aveva iniziato un lavoro sperimentale partendo dall’incredibile assurda voce di
cui era dotato. Una voce capace di raggiungere i 7000 hz di frequenza, oltre 12
volte quella di un normale tenore, la capacità di emettere contemporaneamente
due, tre, quattro suoni. Una voce che lo portò ad inoltrarsi nei territori
della ricerca etnomusicologa, era diventato Il maestro della voce . Aveva mille
progetti quando la diagnosi arrivò come un fulmine inatteso, anemia aplasica.
Allora le sole speranze le davano
le cliniche statunitensi, e allora una corsa contro il tempo, bisognava
raccogliere i soldi per pagare le spese, per trovare le cure. Demetrio non era
mai diventato ricco.
E allora un concerto, un evento
unico in cui i musicisti avrebbero suonato gratuitamente e l’incasso sarebbe
andato direttamente per salvarlo. Ma come in un romanzo scritto male, il 13
giugno del 1979, alla vigilia dell’appuntamento, Demetrio Stratos moriva a New
York per arresto cardiocircolatorio.
E il concerto, che dalla
pubblicistica è ricordato come la “Woodstock italiana”, si trasformò in
un omaggio, un saluto a cui risposero musicisti di ogni tipo e a cui accorsero
ragazzi e ragazze da tutta Italia. Ore di musica, a bestemmiare contro quella
pioggia che sembrava cadere apposta, contro i primi segni del riflusso per cui
c’era anche chi contestava il musicista sul palco perché poco orecchiabile, a
emozionarsi quando salivano le icone del tempo, poche parole e giù una canzone che
sembrava tirata su apposta.
C’erano artisti ancora in attività
come Guccini, Finardi, Vecchioni, il Banco
del Mutuo Soccorso, Venditti, Branduardi, gruppi
scomparsi come i Carnascialia (Con Mauro Pagani), i Kaos Rock, gli Skiantos,
e tanti e tanti altri.
Difficile ricordarli tutti, si
celebrava un funerale gioioso ed emotivamente accomunante, ma insieme a
Demetrio se ne stava andando un epoca, anche se era impossibile rendersene
conto.
Suonavano altri, ma sognavamo che
da li ad un momento sarebbe apparso Demetrio, con l’aria scanzonata che gli era
solita, il profilo inconfondibile, un cappellaccio e un sorriso sghembo.
Sognavamo di sentire riecheggiare
“Luglio,
agosto, settembre nero”, “L’elefante bianco”, “La
mela di Odessa”, di svegliarci da un incubo grazie ad una voce che
arrivava da un altro pianeta.
Il concerto andò avanti per ore,
fra continui black out dovuti alla pioggia, pause estenuanti, microfoni che non
funzionavano, amplificazioni che tossivano e distorcevano. C’era chi saliva sul
palco come se nulla fosse accaduto, chi a testa bassa, con il cuore altrove,
chi preso dal proprio pezzo, chi consapevole di rappresentare una parte di un
cosmo, di una generazione che andava in frantumi. Fuori c’erano l’eroina e la
solitudine, la metropoli che si imbarbariva, le relazioni che saltavano, il
piombo delle ultime avanguardie armate e il trionfo della Milano degli affari e
della corsa al profitto.
Fuori c’era un mondo che era
andato in senso contrario rispetto alle aspettative, alle speranze, ai sogni di
molte e di molti, si tornava indietro, protetti da modelli rassicuranti ed
escludenti, di cui presto si sarebbero visti i frutti. Ma dentro quell’arena
c’era ancora voglia di sperare e di credere che la musica non si sarebbe
interrotta, che si stavano condividendo insieme, una tappa dura di un percorso
che non terminava lì, che non moriva come era morto Demetrio.
L’Arena, fradicia, era un guscio
di noce a cui aggrapparsi, in cui pensare che suoni e parole potessero tornare
a riempire il silenzio che cominciava ad invadere le vite e la quotidianità. Le
parole erano le parole dolci e dure di chi non si rassegnava, la musica
permetteva di intravedere un domani meno piovoso, carico di ironia, passione,
rabbia, vitalità. Squarci di luce che non potevano essere irrigimentabili in un
razionale progetto politico tradizionale, che guardavano verso il mondo in
mutazione con la voglia di riappropriarsene, di impedire che qualcosa o
qualcuno di cui non si conosceva l’identità, trasformasse tutto in merce.
Gli Area, senza Demetrio salirono
più volte sul palco, a voler sfidare il mondo e la mortalità delle persone, a
voler proporre un futuro dalle sonorità distorte e penetranti, capaci di
rinnovarsi, di saltare l’ostacolo, di esistere. Le facce dei membri della band
erano poco più che un punto dagli spalti. Anni dopo, a riguardare i filmati di
repertorio, si ritrovano volti segnati e improvvisamente induriti dagli anni,
dalla Storia che passava davanti, dalla tensione, da un dolore che si
trasformava in accordi.
Arrivò come un colpo al fegato, l’Internazionale distorta
e suonata con rabbia e coraggio.
Arrivò in un silenzio irreale che nessuno voleva rompere.
Note lancinanti che chitarra e basso elettrico rendevano
infinite, la batteria scaricava tuoni, forse scomposti. Pochissimi,
interminabili minuti.
Ed erano tanti i volti di uomini e donne rigati dalle
lacrime, tanti gli ingenui e sinceri pugni alzati.
Contro un cielo, contro una morte, contro qualcosa che
finiva, inevitabilmente, come tutto.
Imparare a leggere le cose
/intorno a te/ fino a che non se ne scoprirà /la realtà/ districar le regole
che non ci funzionan più/spezzando tutto con/radicalità….
[ Manifesto della "Prima Rassegna di Musica Alternativa "VOLTERRA CONTRO" 1 Settembre 1974 ]
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