mercoledì 31 agosto 2011

Trentuno anni fa la mafia uccideva Carmelo Iannì


Nella Sicilia degli anni ottanta, quando contravvenire alle regole dell’omertà era quantomeno impensabile, quegli spari che echeggiarono nella hall del “Riva Smeralda” furono un monito nei confronti di chi intendesse schierarsi dalla parte dello stato contro l’egemonia mafiosa. Proprio quello che Carmelo Jannì, proprietario di quel piccolo albergo di Carini, a due passi dal mare, aveva coraggiosamente deciso di fare.
Erano gli anni del business della droga, gli anni in cui gli uomini d’onore siciliani mettevano le mani sul mercato mondiale degli stupefacenti. La mafia dell’isola, secondo un rapporto dell’epoca della DEA, forniva un terzo del fabbisogno del mercato americano, quattro tonnellate di eroina pura all’anno.
Erano pure gli anni in cui la mafia lasciava sul terreno vittime eccellenti, dal presidente della Regione Piersanti Mattarella al procuratore capo Gaetano Costa.
Carmelo Iannì, albergatore 46 enne palermitano, marito e padre di tre figlie, non avrebbe mai pensato che quei fatti di mafia che stravolgevano la Sicilia lo avrebbero coinvolto, facendolo diventare innocente protagonista.
L’imminente arrivo in città di Andreè Bousquet, il miglior chimico marsigliese in circolazione, era un segnale inequivocabile che le raffinerie di droga si trovavano nel territorio di Palermo.
La più grande operazione antidroga, e la scoperta delle raffinerie di eroina, passò proprio dalla scelta di Carmelo Iannì.
Quella di permettere ad alcuni poliziotti di infiltrarsi nel suo albergo, fingendo di essere impiegati. L’albergo dove aveva deciso di alloggiare Bousquet, insieme ad altri due esperti di raffinazione giunti dalla Francia.
Per un mese circa, quindi, i poliziotti seguirono tutti i movimenti dei tre fino alla notte fra il 25 e il 26 agosto 1980 quando, in un edificio in costruzione nelle campagne di Trabia, scattò il blitz. Lì, insieme ai chimici e alla droga, la polizia trovò, con enorme sorpresa, anche il boss Gerlando Alberti, detto ‘u paccarrè.
La presenza sul luogo del blitz degli stessi agenti che avevano finto per un mese di essere impiegati dell’hotel fece facilmente intuire allo storico capomafia di Porta Nuova chi, in maniera determinante, aveva agevolato la polizia nella propria attività di indagine.
Il 28 agosto, pochi giorni dopo il blitz, alle 15.30 circa, due uomini eseguirono l’ordine che ‘u paccarrè aveva dato dal carcere, mettendo così fine alla vita di Carmelo iannì, colpevole di avere scelto di stare dalla parte sbagliata.
Cadde nella reception del suo albergo che con tanti onesti sacrifici aveva realizzato.
Per l’omicidio di Carmelo Iannì furono condannati all’ergastolo Gerlando Alberti e il suo complice Vincenzo Citarda. Gli esecutori materiali non sono mai stati individuati.
Nel 1990 il deputato radicale Alessandro Tessari presentò una interrogazione al Ministero della Giustizia per chiedere l’applicazione al signor Andrè Bousquet, cittadino di nazionalità francese, dei benefici previsti dalla convenzione di Strasburgo relativa al trasferimento nel proprio Paese delle persone condannate.
Il sacrificio di Carmelo Iannì che accettò di collaborare con le forze dell’ordine, mettendo a repentaglio la propria vita, in un’epoca in cui la mafia uccideva anche chi solo si permetteva di sbeffeggiare i boss dai microfoni di una radio, viene ricordato oggi come esempio di forte senso civico.
Con queste parole lo ha ricordato Sonia Alfano europarlamentare e presidente dell’associazione nazionale familiari vittime di mafia, in occasione del trentunesimo anniversario dell’assassinio.
Oggi fare memoria e utilizzare contro il sistema mafioso sempre più istituzionalizzato le armi della parola e del ricordo, deve essere un modo per dare ai cittadini di domani gli strumenti per capire la nostra storia imbevuta di sangue innocente e far sì che vicende come questa non si ripetano.
La storia della famiglia Iannì racconta uno spaccato di realtà che ci offende tutti: non solo ha subito la violenza mafiosa, e non solo ha dovuto affrontare per lungo tempo l’indifferenza di una società civile disinformata e distratta, ma soprattutto quella dello Stato – sottolinea – che fin troppo spesso ha abbandonato i familiari delle vittime innocenti di mafia al proprio triste destino, soprattutto quando queste non potevano fregiarsi di un cognome celebre pur avendo tutto il diritto di rivendicare il proprio orgoglio e la propria dignità, esattamente come in questo caso”. Per questo è indispensabile una diffusa cultura antimafia ed è fondamentale trasmettere i valori di uomini semplici e coraggiosi come Carmelo Iannì ai ragazzi che si apprestano a fare quelle scelte che decideranno i destini del nostro Paese”.

martedì 30 agosto 2011

La forza di quelle date che uniscono un popolo e un paese

Fateci caso: ogni qual volta un nuovo potere vuole disintegrare il tessuto sociale del paese da “conquistare” come prima cosa tende a svalutarne e poi a distruggerne i simboli. L’Italia nata dalla Resistenza è divenuta per molti quasi un ricordo, gli uomini ed i partiti che l’hanno creata spariti, è sceso il buio.
Ma anche in questa oscurità il 25 aprile, il1° maggio ed il 2 giugno hanno rappresentato la sola occasione dove un popolo disorientato tornava ad essere unito, dove una platea scollegata ormai in mille sigle trovava, intonando «Bella ciao», il fattore comune dell’essere Paese, nonostante le brutture e le debolezze, ritrovava l’orgoglio di essere figli di un atto di coraggio: la Resistenza.
Bandiere le chiamano, simboli, ma sono l’essenza stessa del sentirsi uomini, nervi e sangue della democrazia. Valori e simboli “pericolosi” per il potere, perché uniscono, perché rendono forti un insieme di debolezze, per questo il governo più iniquo della storia vuole approfittare della scusa della crisi, per scardinare simbolicamente gli ultimi capisaldi del nostro paese. Spostare - per abolirli, di fatto - il 25 aprile, il 1°maggio ed il 2 giugno, non è cancellare tre “festività”, ma azzerare tre valori condivisi, libertà, lavoro e repubblica, che sono il collante della nostra nazione.
Disintegrare l’unità non solo territoriale ma soprattutto morale dell’Italia è l’obiettivo dei vari Berlusconi, Sacconi, Bossi, Calderoli e dei loro giannizzeri meridionali come Scilipoti. Uomini al servizio non dei cittadini, ma dei loro interessi personali, dei loro gruppi di potere, di un nuovo fascismo imperante figlio della disgregazione sociale in cui, anche a causa di un opposizione spesso inerte, hanno gettato l’Italia. Ma anche in questo buio c’è chi dice no, c’è chi si oppone con le armi della democrazia, che lancia segnali sperando che vengano colti.
Tra questi i docenti universitari Thomas Casadei (anche consigliere Pd), Roberto Balzani (anche innovativo Sindaco di Forlì), Sauro Mattarelli e Maurizio Ridolfi: la petizione on line che hanno lanciato invitando i cittadini alla mobilitazione "http://soppressionefestecivili.blogspot.com" sta mietendo adesioni, all’insegna di una riscossa civile, morale, sociale. Sulla stessa scia l’appello lanciato da Articolo21, immediatamente ripreso dall’Anpi, e dalla Cgil, insieme ad una scia fortissima di mobilitazione sul web. 

Come nelle rivolte arabe la rete diventa frontiera della difesa dei diritti e cardine dell’articolo 21 della Costituzione. Perché a ben vedere in un paese come il nostro sacche di “Resistenza” si creano ovunque. Per questo i “nuovi fascismi” non avranno vita facile, perché è cresciuta una generazione di “nuovi partigiani”, che non si piegano all’indifferenza: partecipano, lottano, amano e non si arrendono. Utilizzano la rete come grimaldello e le piazze come momento di aggregazione, vincono elezioni e referendum e trainano partiti che faticano ad intercettarne i nuovi bisogni di partecipazione. Come sessanta anni or sono hanno piantato il vessillo dei beni comuni e dei valori e sono disposti a difenderlo, costi quel che costi, contro tutti, anche contro i loro “interessi” personali.
Chiudete gli occhi, ascoltate: Resistenza, lavoro, solidarietà, repubblica, danno vita ad una canzone bellissima che ha un solo titolo: LIBERTA'.

Come diceva Antonio Gramsci «la rosa è viva e certamente dopo la neve fiorirà».
L’Unità/Emilia-Romagna 28.08.11

domenica 28 agosto 2011

Libero Grassi: Cara mafia, io ti sfido…

Non sono pazzo, non mi piace pagare. Io non divido le mie scelte con i mafiosi”. È l’11 aprile 1991 e in diretta tv Libero Grassi, industriale tessile proprietario della Sigma di Palermo, racconta la sua vicenda d’imprenditore che rifiuta di pagare il pizzo alla mafia.
Il caso varca i confini della Sicilia e diventa di dominio nazionale. Il 29 agosto alle 7.30 muore in un agguato a pochi passi del portone di casa. Il killer è Salvo Madonia, figlio del boss del quartiere San Lorenzo.
Lo ammazza perché può essere un “cattivo esempio” per gli altri commercianti. Potrebbero alzare la testa anche loro. Così invece se ne stanno tranquilli.
Libero Grassi quella mattina di vent’anni fa viene ucciso due volte: da Cosa nostra e dall’indifferenza dei suoi colleghi imprenditori. Lo hanno lasciato solo e sopportato con fastidio. Perché fa “tammuriate”. Non è uno che paga e sta zitto. Come fanno gli altri.
Nessuno ha dimenticato Libero Grassi. Perché il seme della sua ribellione è germogliato. Perché se “un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”, un popolo che ritrova la sua dignità è più forte di qualsiasi mafia.

«Per essere Libero, tu che fai?», l'omaggio di Palermo a Libero Grassi


Al via le manifestazioni in ricordo dell'imprenditore anti-racket ucciso 20 anni fa dalla mafia

«Per essere Libero, tu che fai?». È questa la provocazione lanciata quest'anno sulle locandine per la commemorazione della morte di Libero Grassi, l'imprenditore che nel 1991 fu ucciso per mano mafiosa perché si rifiutò di «mettersi a posto» pagando il pizzo ai suoi estortori. Intraprese un'azione solitaria e coraggiosa contro l'organizzazione mafiosa senza ricevere alcun appoggio, per il meritevole gesto, da parte delle associazioni di categoria.

Vent'anni fa Libero Grassi veniva ucciso e da allora molte cose sono cambiate e gli imprenditori e i commercianti palermitani che non pagano il «pizzo» sono tanti, un «intero popolo» non paga e sceglie di rivolgersi alle autorità denunciando i propri estortori. La famiglia Grassi, il comitato Addiopizzo, il FAI, l'associzione Libero Futuro e ProfessionistiLiberi hanno organizzato quest'anno una due giorni per commemorare Libero e per riflettere sul tema «Mafia o sviluppo? 1991-2011».

Si parte domenica 28 alle 17 con la consueta pedalata «Libero la città» che da villa Giulia passa per via Alfieri, luogo dove venne ucciso Libero Grassi, (tributo dei fiori e minuto di raccoglimento), e arriva a Piazza Marina. Alle 18.30 a Palazzo Steri si comincerà con un Reading della «Lettera al caro estortore», vincitrice del premio «Libero Grassi 2011». Seguirà un assolo di danza classica di Maria Giovanna D'Amico, dedicato all’imprenditore ucciso dalla mafia e Roberto Alajmo leggerà degli spezzoni del suo libro «Palermo è una cipolla». Alle 20.15 partirà il dibattito «Mafia o Sviluppo. 1991-2011» dove sarà presentata la ristampa del libro «Mafia o Sviluppo. 1991-2011 – Un dibattito con Libero Grassi», Editore Di Girolamo. Interverranno: Umberto Santino, Presidente Centro Impastato; Ivan Lo Bello, Presidente Confindustria Sicilia; Roberto Helg, Presidente Confcommercio Palermo; Gaetano Paci, Magistrato della Dda di Palermo e Presidente della Fondazione legalità «Paolo Borsellino»; Costantino Garraffa, Senatore della Repubblica; Enrico Colajanni, Presidente Libero Futuro; Ugo Forello, Presidente Comitato Addiopizzo; Tano Grasso, Presidente onorario della FAI e Pina Maisano Grassi.

Alle 22 sarà proiettato in anteprima nazionale del documentario «Mettersi a posto. Il pizzo a Palermo», di Marco Battaglia, Gianluca Donati, Laura Schimmenti, Andrea Zulini, una produzione a cura della Playmaker, realizzato in collaborazione con la Filmcommission della Regione Siciliana. Il documentario descrive la situazione attuale del racket delle estorsioni e testimonia come alla persistenza del fenomeno mafioso si contrapponga un’importante disgregazione dei tabù ed una mobilitazione sociale e delle istituzioni per la lotta contro il «pizzo». «Mettersi a Posto» racconta il fenomeno estorsivo nella sua complessità attraverso le testimonianze degli organi preposti alle indagini, i processi giudiziari che vedono coinvolti i commercianti e gli imprenditori, le voci dei magistrati, e le iniziative delle associazioni antiracket.

Lunedì 29 agosto alle 7.30 è in programma il consueto raduno in via Alfieri per ricordare Libero nell'ora della sua morte, avvenuta alle 7.45. Alle 8:30 «tutti a fare la spesa al Sisa», è prevista un'azione di Consumo Critico Pizzo-Free al supermercato Sisa, in via Pindemonte n. 78, in sostegno all’imprenditore denunciante Domenico Davì. Alle 10 ci sarà l'assemblea nazionale della FAI (Federazione delle Associazioni Antiracket ed Antiusura Italiane) presso la sede del Comitato Addiopizzo, via Lincoln n.131. Alle 21 ci si sposta alla Tonnara Bordonaro per la presentazione del libro «Libero, l’imprenditore che non si piegò al pizzo», di Chiara Caprì e Pina Maisano Grassi, RX Castelvecchi Editore. E per concludere alle 23.30 ci sarà la proiezione del film-documentario «Libero nel nome» di Pietro Durante, in contemporanea con la messa in onda di Rai Due.

Libero Grassi: CARA MAFIA IO TI SFIDO

Educare alla legalità attraverso il fumetto. Raccontare storie di uomini che loro malgrado sono diventati eroi. In occasione dei vent'anni dal delitto di Libero Grassi, avvenuto a Palermo il 29 agosto 1991, la Round Robin editrice pubblica il fumetto "Libero Grassi (Cara mafia, io ti sfido)" di Laura Biffi, Raffaele Lupoli e Riccardo Innocenti. Una graphic novel che ripercorre la storia dell'imprenditore ucciso dalla mafia dopo aver intrapreso una guerra solitaria contro una richiesta di pizzo. "Raccontiamo la normalità di una lotta straordinaria - spiega Lupoli, curatore della collana che si è occupata anche del fumetto su Pippo Fava - Ricostruiamo la memoria dal basso, attraverso la testimonianza di chi l'ha conosciuto". La vedova Pina Misano Grassi, il presidente di Confindustria Sicilia Ivan Lo Bello, il fondatore della prima associazione antiracket della Sicilia Tano Grasso e i ragazzi di Addio Pizzo: un libro inchiesta frutto di oltre trenta interviste sul campo e più di un anno di lavoro. "Siamo stati molto precisi oltre che nella ricostruzione della sceneggiatura anche nei disegni, raccontando la Sicilia e Palermo di allora  -  spiega lo sceneggiatore - Inserendo degli episodi divertenti che rendono l'idea della normalità di un uomo che come tutti, aveva i suoi vezzi, tra cui mangiare i cannoli prima di cena e non a fine pasto. Insomma un modo per spiegare ai ragazzi che si può essere straordinari nella normalità".

sabato 27 agosto 2011

Si dimette il sindaco di Belmonte Mezzagno, comune in odor di mafia


Adesso lo stesso Consiglio dei ministri che aveva detto no allo scioglimento del Consiglio, ha deciso invece un provvedimento piu' 'morbido', con la rimozione di quattro dirigenti dell'ufficio tecnico, per presunte '"inadempienze e inerzia". Insomma, uno scioglimento solo a meta'. Rimozione immediata dei vertici dell'ufficio tecnico per “inadempienze e inerzia dei dipendenti”.
Queste le motivazioni contenute nella notifica che sabato scorso era stata consegnata dai carabinieri presso il municipio di Belmonte Mezzagno.
Un comune che sta vivendo un'estate a dir poco calda che era iniziata con la relazione depositata dal Prefetto, Giuseppe Caruso, oggi in forza all'agenzia per i beni confiscati, vagliata dal ministro dell'Interno, in cui si ipotizzano infiltrazioni mafiose a palazzo di città e soprattutto pesanti irregolarità nella gestione dell´ufficio tecnico.
Imprednitori fidati vicini a boss a cui sarebbero stati affidati dal Comune diversi lavori pubblici con la formula della somma urgenza, o ancora altre irregolarità di cui si occuperà la Procura, come quelle riguardanti esponenti della giunta con incarichi tecnici privati in cantieri che lavorano con abusi edilizi.
Lo stesso Consiglio dei ministri, pur negando lo scioglimento del comune, aveva dovuto prender atto della situazione, tanto che si espresse con tali parole alla richiesta: «Preso atto della relazione del ministro dell'Interno sulla situazione nel Comune di Belmonte Mezzagno (Palermo), il Consiglio ha poi autorizzato il ministro ad avvalersi dei poteri conferitigli dalla legge per contrastare, a livello delle strutture comunali, ogni condizionamento della vita amministrativa da parte della criminalità' organizzata, senza pervenire allo scioglimento del Consiglio comunale».
Contestando duramente la relazione dell'ex prefetto ieri sera, il sindaco Saverio Barrale, zio del ministro per le politiche agricole Saverio Romano, ha rassegnato le dimissioni al termine di un´infuocata seduta del consiglio comunale spedendo anche una lettera allo stesso Ministro degli Interni Maroni. Un atto che scatena un vero terremoto politico, tanto che in comune potrebbe arrivare presto il commissariamento.
Sulla vicenda è intervenuto anche il senatore Pd, Giuseppe Lumia: «L'esecutivo, non accogliendo la richiesta di scioglimento dell'amministrazione di Belmonte Mezzagno, ha deciso di ignorare i rilievi sulle collusioni e le infiltrazioni mafiose fatti dalla prefettura di Palermo. Un governo non può chiudere gli occhi per opportunità politica, come è avvenuto anche per il comune di Fondi. Questo è inaccettabile perchè la lotta alla mafia non deve guardare in faccia nessuno». Lo dice il senatore del Pd, Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia. «Il ministro dell'Interno - aggiunge - ci spieghi quali valutazioni stanno alla base della scelta del Consiglio dei ministri. Ci sono state pressioni indebite? La decisione di azzerare l'ufficio tecnico senza chiamare in causa l'istituzione politica è incoerente e rischia di compromette la credibilità di uno strumento antimafia molto importante per prevenire degenerazioni politico-mafiose».

venerdì 26 agosto 2011

Monitoraggio rifiuti, la fine del Sistri - Un sistema mai decollato e già indagato

La manovra economica cancella il progetto voluto dal ministro Prestigiacomo e osteggiato dalla Lega. Una lunga storia di ritardi, malfunzionamenti e presunto malaffare. Che a molti operatori del settore è costata migliaia di euro.
Rimandato a settembre, dopo la falsa partenza di giugno, ora definitivamente bocciato. E’ il destino toccato al Sistri, il sistema di tracciabilità dei rifiuti, il fiore all’occhiello sbandierato dalla ministra Stefania Prestigiacomo come strumento per combattere le ecomafie che fatturano ogni anno intorno ai 20 miliardi di euro. Nel decreto anticrisi varato dal governo, votato all’unanimità, è prevista anche l’eliminazione del Sistri, annunciata dal ministro della semplificazione Roberto Calderoli: “Nessuna impresa lo voleva e lo abbiamo cancellato”. La Lega Nord ha, nei fatti, commissariato la ministra. Che, ovviamente, non ha per niente gradito e, in due interviste – a La Repubblica e a Il Mattino – ha attaccato a testa bassa la manovra “da rivere” e ha bollato l’abolizione del Sistri come “un regalo alle ecomafie”.
Un sistema semplice il Sistri, almeno sulla carta, con l’uso di dispositivi tecnologici e un collegamento con un cervellone centrale, pronto ad attivare controlli sul territorio alla prima segnalazione. Telecamere presso gli impianti di smaltimento, esclusi privati e depuratori. Ogni automezzo che trasporta rifiuti provvisto di una chiavetta usb attraverso la quale accedere al sistema per caricare i dati di carico e scarico dei rifiuti e di una black box di rilevamento della propria posizione, monitorata dai carabinieri del Noe (il Nucleo operativo ecologico) nell’avveniristica sala di controllo installata presso la Selex (società del gruppo Finmeccanica) che si occupa del sistema di tracciamento. Un sistema mai entrato in funzione.
“Avevamo più volte portato proposte di modifica all’ufficio della ministra”, racconta Guido Dussin, deputato del Carroccio, “le avevamo chiesto una deroga all’avvio spiegando che molti imprenditori hanno registrato difficoltà nell’utilizzo del sistema, ma niente, non ha voluto ascoltare. Non possiamo rompere le scatole, creando intralci, a chi lavora”. E così nel giro di poche ore, prima del varo in consiglio dei ministri, sarebbe nata l’idea di cassare l’intero provvedimento. Prestigiacomo non ha voluto accettare ulteriori proroghe, visto che nel marzo scorso annunciava in una conferenza stampa l’avvio del Sistri entro il primo giugno (dopo un primo rinvio), promettendo che non ci sarebbe stati ulteriori ritardi. Una promessa disattesa con la partenza prevista a settembre, a scaglioni, e il no perentorio a nuove proroghe. Ora arriva la definitiva bocciatura in consiglio dei ministri.
Il Sistri è un progetto naufragato in continui aggiornamenti del software. Segnali di cedimento del sistema, che avrebbe dovuto monitorare 600mila operazioni al giorno, sono arrivate nella giornata dedicata al click day. Le aziende coinvolte avrebbero dovuto essere oltre 300mila, impegnate nella produzione, smaltimento e trasporto dei rifiuti speciali, pericolosi e non (in Campania anche i rifiuti solidi urbani). A metà maggio Confindustria decide di testare il sistema, ma la prova finisce con il call center occupato, le chiavette illeggibili, l’impossibilità di chiudere una virtuale trafila del rifiuto. Insomma, più che un click day, un “crack day”, dicono gli industriali.
Non solo. L’appalto, secretato dal precedente governo, è stato assegnato senza gara alla Selex, società di Finmeccanica, e presenta non poche ombre. Ombre sulle quali indaga ora la Procura di Napoli, che nell’ambito dell’inchiesta sulla P4 ha aperto un fascicolo sul caso Sistri, con tanto di perquisizioni scattate nel giugno scorso. I reati contestati sono l’associazione per delinquere finalizzata alla truffa ai danni dello stato, all’abuso d’ufficio e alle fatturazioni inesistenti.
Gli indagati sono Sabatino Stornelli, amministratore delegato di Selex Management, società del gruppo Finmeccanica, e Paolo Di Martino, amministratore delegato di Viacom, altra società entrata nell’appalto, e Luigi Pelaggi, dirigente del ministero dell’Ambiente. Dopo le perquisizioni, la Prestigiacomo ha difeso Pelaggi che “ha sempre agito nell’assoluto rispetto delle normative e della correttezza professionale”. L’avvocato Pelaggi, uomo forte del ministero dell’Ambiente, è indagato anche a Milano per l’affare della bonifica all’ex Sisas.
L’idea di base del sistema, seguire i rifiuti, viene difesa dalle associazioni ambientaliste e anche dal procuratore antimafia Piero Grasso che giudica la cancellazione “un vero e proprio regalo alle ecomafie”. Le opposizioni chiedono le dimissioni di Prestigiacomo, che, invece, resta al suo posto annunciando emendamenti al decreto per recuperare il progetto. Ora resta il nodo degli operatori che dal 2010 hanno pagato l’una tantum per l’installazione, il canone annuo e hanno allestito sui propri automezzi la scatola nera, pagando anche gli abbonamenti agli operatori telefonici. “Ci dicano che cosa dobbiamo fare? Abbiamo speso oltre 10 mila euro”, racconta un operatore del settore, “adesso chi ci rimborsa?”. La patrimoniale sui rifiuti, nuova invenzione del governo Berlusconi.
[Nello Trocchia su "Il fatto quotidiano del 14/8/2011]

giovedì 25 agosto 2011

Governo vara manovra ma senza togliere soldi a mafiosi e corrotti

Cade nel vuoto l'appello lanciato in queste settimane dall’Associazione Avviso Pubblico.
Tagli per 45,5 miliardi nella manovra economica "d'urgenza" varata dal Governo.  E cade definitivamente nel vuoto l'appello a evitare tagli a servizi e enti locali e recuperare soldi da lotta alle mafie e corruzione. A lanciarlo  in queste settimane Avviso Pubblico, la rete di enti locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie.
150 miliardi di euro, tanti sarebbero infatti, soldi sottratti quest’anno dalle mafie all’economia nazionale. Rubati, centesimo dopo centesimo, dalle tasche degli italiani onesti per fare cassa con i business illegali, con la complicità di corrotti e collusi. Come riportato in una recente relazione della Commissione parlamentare antimafia la presenza delle mafie sottrae fino al 15% di PIL in regioni come la Basilicata e la Puglia. E secondo il Censis fa perdere nel Mezzogiorno sino a  180 mila posti all’anno. Questi i veri numeri da tenere a mente in una manovra economica, urgente, che risponda alle richieste dell’Europa, certo, ma anche a quelle della legalità. 
E invece nè il Governo nè le opposizioni prendono in considerazione queste cifre. Se non bastassero i dati elencati sin qui, secondo l’ultimo rapporto di SOS Impresa di Confesercenti, sono circa 500 mila i commercianti oggetto di attenzione della malavita, per un giro d’affari criminale stimato in 98 miliardi di euro, di cui 37 per mano mafiosa. E la stessa Banca d’Italia per voce della vice direttrice generale Tarantola, ha affermato che in Italia il riciclaggio del denaro sporco incide sul 10% del PIL.
Le cifre sono note da anni, e continuano a peggiorare, ma nemmeno in un periodo di crisi economica generale come questa, la politica vuol tenerne conto. A denunciarlo, con forza, in un appello caduto nel vuoto, Avviso Pubblico. Da settimane chiedono al Governo e alle parti sociali «di introdurre nell’agenda del loro confronto anche il tema della legalità, del contrasto alle mafie, alla corruzione, all’evasione fiscale all’economia sommersa». 
«Ieri – proseguono da Avviso Pubblico - il governo ha incontrato le parti sociali dopo che queste, nei giorni scorsi, hanno sottoscritto un documento comune per chiedere interventi specifici e urgenti. Da quanto emerge leggendo i giornali, nel corso dell’incontro si è parlato della necessità di attuare misure contro inefficienze e sprechi, di provvedere alla messa in ordine dei conti pubblici, di liberalizzazioni e privatizzazioni, di modifiche da introdurre nel mondo del lavoro». «Non ci risulta che tra l’Esecutivo, gli imprenditori, i banchieri, le associazioni di categoria e i sindacati sia stato affrontato un tema che, secondo Avviso Pubblico, è centrale – concludono : quello dei costi economici e sociali dell’illegalità. Ci riferiamo, in particolare, ai costi delle mafie, della corruzione, dell’evasione fiscale e dell’economia sommersa che incidono pesantemente sulla qualità della nostra economia, della nostra sicurezza, della giustizia e della nostra vita in generale».


19 agosto 1949 - 62 anni fa la strage dei Carabinieri di Passo di Rigano - Bellolampo (PA)

La strage di Bellolampo è una pagina di eroismo dell’Arma dei Carabinieri, poco nota agli italiani.
In un difficile contesto socio-politico come quello del 2° dopoguerra in Sicilia, a Passo di Rigano, sette carabinieri persero la vita perché impegnati nel ripristino della legalità.
Teatro dell’eccidio quella che allora era una piccola borgata alle porte di Palermo, posta sulla strada provinciale SP1 di accesso alla città provenendo da Partinico e Montelepre; il bandito Salvatore GIULIANO, fece esplodere una potente mina anticarro lungo la strada. La deflagrazione investì un mezzo, con a bordo 18 Carabinieri, di una colonna composta da 5 autocarri pesanti e da due autoblindo che trasportavano complessivamente 60 unità del Battaglione Mobile Carabinieri di Palermo. L’esplosione dilaniò il mezzo e provocò la morte di sette giovani Carabinieri, altri 10 rimasero feriti, alcuni subendo gravi mutilazioni. Tutti ragazzi di umili origini, provenienti da varie città italiane.
In quegli anni la banda GIULIANO teneva in scacco lo Stato. La convergenza di interessi tra: la malavita, i separatisti dell’EVIS (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia), i grandi latifondisti ed i boss mafiosi, diede luogo ad una vera e propria guerra contro lo Stato: vennero messe in atto violente azioni di guerriglia militare contro l’Arma dei Carabinieri e l’Esercito quali baluardi dell’unità nazionale e, successivamente, contro istituzioni pubbliche e politiche.
Tra gli episodi più significativi si ricorda il precedente assalto alla caserma dei carabinieri di Bellolampo (26 dicembre 1945) quando una cinquantina di banditi incappucciati attaccarono l'edificio che lo occuparono, dopo un violento combattimento, devastandolo e razziando armi e munizioni.
Tre giorni più tardi venne assalita la caserma di Grisì (PA). Dopo 8 giorni toccò alla casermetta di Pioppo (PA) e nelle quarantott'ore successive fu la volta di quella di Borgetto (PA). Ancora più sanguinoso fu l'attacco a quella di Montelepre (PA), paese nativo di GIULIANO, che fu espugnata dopo ore di combattimento.
Dopo, la strage del 1° maggio 1947, a Portella delle Ginestre, quando i banditi sparano su circa 1.500 contadini radunatisi per la festa del lavoro; il 19 dicembre successivo gli squadroni della morte di GIULIANO piombarono all'improvviso a Partinico e attaccarono in forze la tenenza dei Carabinieri.
Dal 1943 al 1949 il banditismo sembrò invincibile. Gli scontri si susseguirono senza interruzioni mietendo decine di vittime tra i militi dell'Arma. Quando il 19 agosto 1949 avvenne la strage di Bellolampo, l’Arma contava quasi 100 carabinieri caduti in conflitti a fuoco.

martedì 23 agosto 2011

Beni sequestrabili al boss senza prova di fonte illecita


MILANO. Per il sequestro di beni appartenenti ad affiliati mafiosi non è necessaria la dimostrazione del nesso di causalità tra la presunta condotta da 416-bis e l'illecito profitto. In sostanza, il giudice può applicare la misura cautelare reale su qualsiasi bene nella disponibilità del presunto affiliato, senza dover ricondurre la proprietà all'attività illecita contestata, essendo invece sufficiente la sola sproporzione tra il reddito ufficiale (ammesso ci sia) e la disponibilità di mobili o immobili.
Non solo: l'indagato non può contestare l'ordinanza di sequestro, e ottenere la liberazione del bene, opponendo un titolo d'acquisto formalmente ineccepibile: ciò che conta, invece, è «fornire una esauriente spiegazione in termini economici di una derivazione dei beni da attività consentite dall'ordinamento».
È la Seconda sezione penale della Cassazione (32563/11, depositata il 19 agosto) a riordinare i principi giurisprudenziali del sequestro preventivo previsti all'articolo 12 del dl 306/92 (misure urgenti di contrasto alla criminalità mafiosa). La Corte si è espressa sul ricorso di un indagato per 'ndrangheta residente nel Milanese, a cui nel febbraio scorso il Gip aveva bloccato la quota coniugale di proprietà di casa oltre a un box per auto.
Secondo l'arrestato, il giudice non aveva correttamente valutato la sufficienza del suo stipendio ufficiale (tra mille e 1.500 euro al mese) per sostenere la rata mensile del mutuo stipulato nel 1999 (262 euro), e inoltre sarebbe stata ignorata la circostanza che il denaro per l'acquisto era stato versato dalla moglie comproprietaria.
La Corte ha invece ribadito il principio – che pure riguarda una fase più avanzata del processo – secondo cui il giudice «non deve ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni confiscati e il reato per cui ha pronunciato la condanna e nemmeno tra questi beni e l'attività criminosa del condannato», bastando invece la prova della «esistenza di una sproporzione tra il valore economico dei beni di cui il condannato ha la disponibilità ed il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica, e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza delle cose».

Due anni fa Ponteranica (BG)...

Il 16 agosto di 2 anni fa, con una convocazione straordinaria della giunta comunale, alle 9 del mattino, il sindaco leghista di Ponteranica impone la cancellazione del nome "Peppino Impastato" dalla biblioteca comunale del suo paese.
Precedentemente anche il prefetto di Bergamo si era dichiarato contrario ad un simile provvedimento. Alle 9 del mattino, ancora prima dell'approvazione di giunta, il sindaco Aldegani invia un operaio comunale a togliere la "vergognosa" targa con il riferimento ad una delle più simboliche e complete figure impegnate nella lotta contro il potere politico-mafioso che per giunta hanno pagato il prezzo più alto perdendo la propria vita.
Il 26 Settembre di quell’anno un corteo di 7000 persone: semplici cittadini, famiglie, associazioni, bandiere di partito, invase pacificamente le vie del paesino bergamasco per protestare contro l’inqualificabile scelta degli amministratori comunali, con bandiere, striscioni ed una riproduzione gigante della targa rimossa.
La stessa targa, riprodotta in piccolo, che a circa mezz'ora dall'inizio del corteo Giovanni Impastato, fratello di Peppino, ha potuto vedere appoggiata "all'ulivo della pace" vicino al bocciodromo, dove nella notte qualche ignoto provocatore ha tagliato; l'ulivo era stato piantato qualche mese prima, giusto il giorno dell'intitolazione della biblioteca poi cancellata dal sindaco Aldegani.
Da allora in tutta Italia, lo sdegno collettivo e la volontà di opporsi alla sempre più vergognosa politica di un partito politico, che è un concentrato di neofascismo, razzismo, ignoranza ed intolleranza, conditi con buffonate da baraccone circense, è sicuramente cresciuto… ma non è bastato.
Un anno dopo, nel settembre 2010 un’analoga manifestazione, contornata da eventi culturali e musicali durati tre giorni, ha denunciato a viva voce “un disegno ben chiaro che va da Bossi a Berlusconi, un disegno che vuole cancellare la memoria”, come sottolineato dal palco da Giovanni, fratello di Peppino Impastato, esortando ad un “risveglio delle nostre coscienze”, perché è vero che le targhe si possono togliere, ma i valori e gli ideali, no! Non si cancellano!
Presenti al fianco di Giovanni Impastato anche Leoluca Orlando, Claudio Fava, Heidi Giuliani semplici cittadini, deputati della Repubblica, amministratori e tanti altri esponenti politici.
La volontà è e rimane quella di « andare oltre la richiesta di rimettere la targa in memoria di Peppino Impastato in biblioteca: costituire un forum permanente antimafia per il Nord, perché la criminalità organizzata non si combatte solo con qualche manifestazione, ma con il costante studio del fenomeno e con il quotidiano impegno politico », nelle parole pronunciate dall'ex sindaco di Ponteranica, Alessandro Pagano.
Queste manifestazioni hanno un significato importante”, come ha scritto agli organizzatori Giovanni Impastato, fratello di Peppino, in un messaggio poi girato alla stampa. “…vuol dire dare continuità alla grande battaglia di civiltà e di democrazia, vuol dire sconfiggere l’arroganza e la prepotenza di questo sistema politico che a tutti i costi tenta di bloccare il grande processo di rinnovamento. Ritorneremo a Ponteranica, per cercare di salvare la memoria storica di questo Paese, sicuramente non saremo 20 milioni, ma sarà comunque importante mobilitarsi….

lunedì 22 agosto 2011

Venti anni fa l’omicidio del giudice Scopelliti

Il magistrato avrebbe dovuto sostenere la pubblica accusa nel maxi processo contro Cosa nostra.
« Il giudice è quindi solo, solo con le menzogne cui ha creduto, le verità che gli sono sfuggite, sono con la fede cui si è spesso aggrappato come un naufrago, solo con il pianto di un innocente e con la perfidia e la protervia dei malvagi. Ma il buon giudice, nella sua solitudine, deve essere libero, onesto e coraggioso ».
In queste parole di Antonino Scopelliti è racchiuso il significato etico e umano della professione e degli ideali per i quali egli è vissuto ed è morto, ucciso il 9 agosto 1991 in località Campo Piale a Campo Calabro (a pochi chilometri da Villa san Giovanni), suo paese originario dove ogni anno egli trascorreva le proprie vacanze estive.
L’omicidio è avvenuto proprio mentre il giudice, di ritorno dal mare a bordo della propria auto e privo di scorta, stava percorrendo la strada che lo avrebbe condotto a Campo Calabro: fu freddato da alcuni colpi di fucile calibro 12. A distanza di venti anni, l’omicidio rimane insoluto: secondo i pentiti Giacomo Lauro e Filippo Barreca i vertici di Cosa nostra sarebbero stati i mandanti dell’assassinio, eseguito materialmente dalla ‘ndrangheta.
Di fatto, nel 2001 la Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria ha assolto Bernardo Provenzano, Giuseppe e Filippo Graviano, Raffaele Ganci, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffré e Benedetto Santapaola, non ritenendoli i mandanti dell’omicidio.
Antonino Scopelliti era nato nel 1935 e a soli 24 anni era entrato in magistratura, compiendo una carriera folgorante: Pubblico Ministero presso le Procure della Repubblica di Roma prima e Milano poi; Procuratore Generale presso la Corte d’Appello e Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione.
Ha rappresentato la pubblica accusa in importanti quanto delicati processi, come quello per l’omicidio di Aldo Moro o quelli istruiti per le stragi di Piazza Fontana e del Rapido 904 (conosciuta anche come Strage di Natale), avvenuta il 23 dicembre 1984 ai danni appunto del treno n.904 proveniente da Napoli e diretto a Milano. L’esplosione, lo ricorderete, causò la morte di 17 persone e centinaia di feriti. Il processo per questa pagina nera della cronaca italiana si concluse pochi mesi prima – marzo 1991 - dell’omicidio di Antonino Scopelliti, che per quella Strage aveva chiesto la conferma degli ergastoli inflitti a Pippo Calò e Guido Cercola; la richiesta fu rigettata dalla Prima sezione penale della Cassazione presieduta da Corrado Carnevale, che dispose invece l’assoluzione di Calò e il rinvio a giudizio degli altri imputati. Ancora oggi raccontare la verità sull’omicidio di Scopelliti è impresa faticosa, perché l’accertamento giudiziario di quella che è una incontrovertibile verità storica non è stato possibile e, incredibilmente, dopo i diversi gradi processuali previsti dall’ordinamento, mandanti ed esecutori sono ancora a piede libero.
Com’è possibile per uno Stato come il nostro, che voglia ancora fregiarsi del titolo di democrazia, pensare di non avere raggiunto alcuna certezza sulla vicenda, condannando quanti hanno voluto l’omicidio del giudice Scopelliti.
La storia del Giudice è egregiamente raccontata in un libro scritto nel 2010 da Aldo Pecora: “Il primo sangue”; qui la figlia Rosanna scrive: «Non accetto volentieri la definizione di eroe quando si parla di papà. Anzi, sono sempre molto attenta a sottolineare la normalità delle sue scelte… Credo che mio padre sia piuttosto un martire, un uomo che, conscio dei pericoli che correva, ha deciso di andare incontro a una fine annunciata, con coraggio e determinazione. Un uomo che ha scelto, nel momento in cui ha indossato la toga per la prima volta, di servire lo Stato con passione, amore e dedizione, nonostante tutto, fino alla fine, al di sopra di ogni cosa». Questo libro è importante perché oltre a tenere viva la memoria di uno di quegli italiani che fanno degno il nostro Paese di essere vissuto, tenta di spiegare che la stagione stragista e la successiva trattativa tra Stato e istituzioni deviate non parte nel 1992, bensì l’anno prima, quando Scopelliti viene tolto di mezzo violentemente. Per troppo tempo siamo stati abituati a credere che l’avvio delle stagioni delle stragi coincidesse con la conferma in Cassazione della sentenza di primo grado di maxiprocesso, avvenuta il 30 gennaio del 1992. In realtà, proprio l’assassinio del sostituto procuratore Scopelliti è il “primo sangue” di una stagione che vede i corleonesi sferrare il loro ultimo attacco disperato allo Stato, con la speranza e la convinzione, che veniva loro molto probabilmente dai contatti avviati durante la stagione della trattativa, di riuscire con l’esercizio della violenza a traghettare verso la seconda Repubblica, spuntando concessioni legislative, revisioni processuali e sconti di pena.
Nel libro si prefigura quasi una sorta di staffetta tra Cosa Nostra e ‘ndrangheta, da quel momento lanciata alla conquista del mondo intero, grazie all’avvio del traffico di stupefacenti su scala internazionale. Se oggi le cosche calabresi detengono il monopolio del narcotraffico, le ragioni di questa scalata vanno trovate in quegli anni e nel contesto in cui maturò l’omicidio Scopelliti, come viene confermato da due magistrati esperti come Salvatore Boemi e Nicola Gratteri, le cui interviste chiudono il libro. La speranza è nel raggiungimento della verità storica e processuale su quanto avvenne allora. La speranza è che alcuni dei boss catturati negli ultimi anni – da Giorgio De Stefano a Pasquale Condello, passando per Giovanni Tegano – decidano di rompere il muro d’omertà che hanno costruito attorno ai loro imperi criminali e collaborino con la giustizia restituendo verità e giustizia a quel giudice che tanto amava il suo lavoro da perdere la vita in nome di uno Stato che, fino ad oggi, non ha fatto nulla per onorarne la memoria.

Dal 17 Agosto a Cinisi tre giornate in ricordo di PEPPINO IMPASTATO


DAL 17 AGOSTO A CINISI TRE GIORNATE IN RICORDO DI PEPPINO IMPASTATO
Tre giornate sotto il segno dell'impegno antimafia. Il 17, 18 e 19 agosto prossimi, l'associazione ''Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato'', organizza alcune iniziative nel Comune di Cinisi, nella sede di Casa Memoria, dell'ex Casa Badalamenti e della pizzeria Impastato.

17 agosto: in occasione della ''Notte Bianca'' di Cinisi. Le porte di ''Casa Memoria'' rimarranno aperte. Le persone cosi' potranno visitare la casa e conoscere e approfondire la storia di Peppino Impastato.
Anche l'ex Casa di Badalamenti, nel corso principale di Cinisi, sara' aperta e all'interno verranno allestite tre mostre fotografiche. La prima sui terreni confiscati a Brusca, a cura dell'associazione Asadin di Cinisi, la seconda, invece, affronta il tema degli sbarchi a Lampedusa con il titolo: ''Storia di barche, braccia e bare''; la terza raccoglie opere di un giovane artista cinisense Beny Vitale e porta il titolo “Trebel art”. Nei suoi collage Trebel non affronta tematiche particolari, assembla le figure in modo inusuale. L’artista non cerca di dare significato alle sue opere, stimola invece l’osservatore a provare una sensazione nuova, nel vedere accostamenti nuovi, di forte impatto visivo ed emotivo. Quest’ultima iniziativa si pone nell’ottica di ospitare a Casa Badalamenti i prodotti del genio artistico locale, per donare nuovo respiro e nuove forme di espressione al territorio. Casa Memoria a questo proposito aspetta nuovi suggerimenti e nuove proposte.
18 agosto: nei locali della pizzeria Impastato (SS.113 Km 288,800 Cinisi) alle 21 verra' proiettato il film ''Io ricordo'' di Ruggero Gabbai, un film a cui il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha dedicato una targa per il valore della coscienza e dell'impegno. Nel decimo anniversario della morte di Giovanni Falcone un padre, Gianfranco Jannuzzo, spiega al bambino Piero La Cara, che quel giorno compie 10 anni, cos'e' la mafia e chi era Giovanni Falcone, perche' lui ne porta il nome e perche' ci sono persone, in Sicilia, che oggi vogliono responsabilmente assumersi l'eredita' morale di Paolo, Giovanni, Boris, Cesare, Gaetano, Rocco, Beppe, Ninni, Carlo Alberto, Piersanti, Libero, Rosario. A seguire l'incontro con l'attore protagonista Gianfranco Iannuzzo.
19 agosto: sempre nei locali della pizzeria Impastato, alle 21, verra' proiettato il trailer del documentario ''Zona Espansione Nord, Libera Repubblica dello Zen''. Il film affronta i problemi di un quartiere, lo Zen zona espansione nord uno dei cosiddetti quartieri satellite, insediamenti popolari per palermitani confinati a Palermo. E' la storia di questo luogo, dei suoi abitanti strappati dai catoi del centro, fuggiti dal terremoto del '68 e dell'occupazione delle case popolari che ne segui'. A seguire, incontro con Giovanni Impastato, Anna Reiter, Vincino Gallo, Giuseppe Barbera, Ciccio Meli e alcuni abitanti dello Zen. Poi performance musicali e recital con Costanza Licata, Rosmary Enea e Salvo Piparo.
  

Ventinove anni fa l'omicidio di Paolo Giaccone, il medico che non si piegò alla volontà dei boss

  

L’11 agosto del 1982 tra i viali dell’ospedale Policlinico di Palermo due killer uccidono il professor Paolo Giaccone, direttore dell’Istituto di medicina legale del capoluogo siciliano e consulente del Tribunale di Palermo. Giaccone, come ogni mattina, si stava recando in ospedale per svolgere il suo lavoro.
Era un professionista capace, ma anche una persona impegnata oltre l’esercizio della sue mansioni. Nel 1963, infatti, aveva istituito presso l’Istituto di medicina legale il Centro trasfusionale Avis per rispondere alla costante esigenza di sangue negli ospedali. Lui stesso era un assiduo donatore, tanto da ricevere all’età di 53 anni la Medaglia d’oro Avis. I suoi amici lo ricordano come un uomo dalle grandi qualità professionali e umane. Perché Cosa nostra decise di ucciderlo? Cosa aveva fatto il dottor Giaccone? O meglio, cosa non aveva fatto?
Giaccone non si piegò alla volontà dei boss. Non accettò di manomettere una perizia dattiloscopica su un’impronta digitale rinvenuta a seguito di una sparatoria scoppiata a Bagheria, nella quale rimasero uccise quattro persone. L’impronta era una delle poche, se non l’unica, traccia lasciata da uno dei killer e utile a risalire alla sua identità. Per questo nei giorni successivi all’affidamento dell’incarico da parte del Tribunale, Giaccone ricevette pressioni e minacce, nonché la telefonata di uno dei legali degli imputati.
Il professor Giaccone avrebbe potuto girare la testa dall’altro lato. Nessuno se ne sarebbe accorto e probabilmente avrebbe pure ricevuto qualche bel regalo da parte dei boss in segno di riconoscenza. D’altronde, il sistema sanitario e il contesto sociale siciliano erano fortemente influenzati da omertà e collusioni, per cui cedere ai ricatti di Cosa nostra e scendere a compromessi con la propria coscienza sarebbe stato abbastanza naturale.
Ma Giaccone era un uomo onesto, integerrimo, con una grande senso del dovere e della legalità. Decise, quindi, di ignorare quelle richieste e andare avanti senza dubbi ed esitazioni, pur consapevole che quella scelta avrebbe messo in pericolo la sua vita. Oggi i suoi assassini sono stati assicurati alla giustizia, l’ospedale Policlinico porta il suo nome, qualcuno nel giorno del suo assassinio lo ricorda. Da allora sono passati 29 anni, ma in pochi hanno fatto memoria del suo sacrificio, nonostante l’elevato valore civile della testimonianza lasciataci da Giaccone.
Non basta, infatti, l’intitolazione di un ospedale o la commemorazione di qualche politico o di qualche realtà associativa. La sua eredità di medico e di cittadino esige una presa in carico della sua eredità da tradurre in un impegno costante e quotidiano in favore della legalità e del bene comune.
Ma a tanti anni di distanza dall’omicidio Giaccone qualcosa è cambiato, nonostante la morte del medico legale sia sempre la stessa? Si, “Paolo Giaccone “non rientra più nella categoria delle vittime di “terrorismo mafioso e criminalità organizzata”.
Lo fa sapere l’Inpdap alla figlia Milly che avrà conferma anche dal viceprefetto Maria Pedone della prefettura di Palermo, che, “senza grandi spiegazioni – dice Milly Giaccone - mi ha confermato che mio padre non rientra fra le “vittime del terrorismo mafioso”” e per questo lei non può essere considerata familiare di vittima di mafia.
Eppure Giaccone, che non aveva accettato di “ammorbidirsi” alle richieste di Cosa Nostra, fu assassinato proprio per mano di Cosa Nostra. Per questo delitto sono stati condannati Filippo Marchese, come mandante, e Salvatore Rotolo come esecutore. Nel 1995 la corte d'appello ha condannato dieci componenti della cupola mafiosa per lo stesso omicidio.
Una storia su cui la Prefettura e l’ente pensionistico Inpdap sono chiamati a fare luce al più presto, prima di tutto per rispetto verso la figura di un uomo coraggioso come è stato il professor Paolo Giaccone, che sembra essere diventato una ‘vittima di serie B’ per via di una burocrazia troppo spesso cieca.



La memoria è sovversiva...



la memoria è sovversiva…
Il generale Rafael Videla, capo della giunta militare che governò l’Argentina tra il 1976 e il 1981, amava ripetere che “la memoria è sovversiva”. Il senso della frase è che niente che possa nuocere al Potere va ricordato. In un’ottica esattamente opposta, io preferisco citare Roberto Scarpinato, magistrato antimafia della procura di Palermo: 
la memoria è come un indice puntato contro i crimini del Potere, restiamo tutti sovversivi della memoria e facciamo che gli assassini contuinino a dormire notti insonni fino a quando non riusciremo a portarli sul banco degli imputati”.
  

Anche Lecce ha la sua Via Peppino Impastato

La Giunta comunale ha deliberato un nuovo pacchetto che arricchisce la toponomastica cittadina. Accolta la richiesta dei Giovani Democratici: “Un gesto simbolico dal grande valore civico”
Giovedì 4 Agosto scorso, una nuova strada è stata intitolata a Peppino Impastato nell’ambito di un provvedimento, immediatamente esecutivo, che ha “battezzato” 37 nuove vie. La strada prescelta è il tratto di 220 metri compreso tra via Vecchia Frigole e via Aldo Palazzeschi. “La strada dedicata a Peppino ora può rappresentare un segnale di speranza per questa terra e per questo obbiettivo raggiunto ringraziamo la disponibilità immediata del sindaco davanti alla nostra richiesta di voler ricordare Impastato anche nella nostra città: un gesto simbolico, al di là delle contrapposizioni politiche, ma con un altissimo valore civico”, ha commentato Diego Dantes, responsabile dell’organizzazione dei Giovani democratici che nei mesi scorsi avevano avanzato ufficialmente la richiesta. Fra le nuove intitolazioni c’è spazio anche per personaggi del passato di questa terra e per qualche illustre figura di livello nazionale che forse di Lecce non hai mai sentito parlare: un parco ricorderà Luisa Della Ratta, fondatrice di Villaconvento; una piazza don Ugo Borgia, sacerdote mentre una via è stata aggiudicata alla memoria dello sciatore Zeno Colò. E se di Lecce Peppino non avrà mai parlato con nessuno, alla fine poco importa. Lecce ha certamente sentito parlare di lui e da giovedì, finalmente, c’è una strada dove si possono percorrere cento passi nel sentiero della memoria.
[dal quotidiano LeccePrima.it di martedì 9 agosto 2011]

L’ Italia diversa c'è

Corleone (PA) – I volontari
con i soci della Cooperativa
C'è un'altra Italia, diversa da quella divorata dall'egoismo o rappresentata dalla degenerazione cinica in alcuni palazzi della politica; un'Italia che usa il tempo delle proprie vacanze per seminare speranze e germi di democrazia. È l'Italia dei tanti giovani che partecipano ai campi di lavoro e studio sulle terre confiscate alle mafie che, in questi giorni, organizzati da Arci, Libera e altre associazioni, stanno dissodando le terre rese aride dalla violenza e dall'arroganza mafiose. La Regione partecipa, con un proprio contributo finanziario e con empatia culturale e politica, a quest'impresa così necessaria in un tempo in cui tutto intorno sembra parlarci solo di indifferenza, corruzione, crisi di valori, trame e conflitti che investono parte del mondo politico e dell'economia. I progetti che abbiamo finanziato in questi giorni hanno coinciso anche con l'anniversario della strage di Bologna, nella quale appunto i poteri deviati dello Stato, la criminalità organizzata, l'eversione fascista produssero il cocktail devastante per le tante vite stroncate e per la nostra democrazia. Ricordare non è solo un doveroso esercizio della memoria,masoprattutto unacostruzione faticosa e quotidiana di spazi di speranza e civismo.
Licciana Nardi (MS) la confisca
Come avvenuto ad esempio, pochi giorni fa a Licciana Nardi (MS). Qui la confisca della Villa di un camorrista condannato per violenze e riciclaggio con il gioco d'azzardo, ha portato alla restituzione al popolo di una casa dove riannodare i fili della comunità, della coesione sociale, della cultura viva. Il gioco d’azzardo, in cui la linea che separa il lecito dall'illecito è sempre più impercettibile, è la zona grigia dove si diffonde la malavita organizzata, anche da noi. Tema evidentemente incomprensibile al governo che, legalizzando dadi, black jack e roulette operabili ora con smarthphone o computer, ha pensato a rimpinguare così le casse dello Stato, mettendo a rischio quelle di molti cittadini. Ma c'è un'altra Italia; a Licciana Nardi; nelle terre confiscate alle mafie; ed ha il volto dei mille giovani toscani che le restituiscono alla civile vita democratica.             
[Enrico Rossi Presidente Regione Toscana - l’Unità 7 Agosto 2011]

"Cosa vostra", poesia di Christian Lezzi dedicata a Peppino Impastato

Il sito dell'autore: link

Commemorati a Palermo il procuratore Gaetano Costa ed il vicequestore Ninni Cassara'


Palermo, 6 agosto. - Commemorati a Palermo il procuratore Gaetano Costa ed il vicequestore Ninni Cassara' uccisi da Cosa nostra lo stesso giorno nel 1980 e nel 1985.
Nell'anniversario della loro morte i due servitori dello Stato sono stati ricordati nei luoghi in cui sono stati uccisi. Cassara' in via Croce Rossa, proprio davanti alla sua abitazione, Costa in via Cavour, dove e' stato freddato dai sicari della mafia.
Gaetano Costa tra le vittime della mafia è una delle più illustri, per la sua singolarità e per il tempo in cui ebbe a svolgersi la sua azione di contrasto di Cosa Nostra. Prima ancora dell’epoca di Falcone e Borsellino.
E’ un precursore, un magistrato che precorre i tempi, come il Battista.
Originario del nisseno, quando arriva a Palermo, trova un ambiente ostile. Ciò nonostante continua l’azione coraggiosa intrapresa dal giudice Cesare Terranova assassinato l’anno prima, nel 1979. Comincia così a fare quello che non avevano fatto alcuni dei suoi colleghi: firma diversi mandati di cattura contro il boss Gaetano Spatola e diventa presto, consapevole di esserlo, il numero uno della lista dei nomi che la mafia decide di cancellare.
Il delitto è ordinato da Salvatore Inzerillo, ma a distanza di oltre trent’anni possiamo dire che nessuno è stato condannato per la sua morte. Avvenuta quella sera d’estate a Palermo mentre solo è intento a guardare un libro in una bancarella di via Cavour.
Aveva rifiutato ogni scorta perchè non voleva essere responsabile  della morte provocata indirettamente agli uomini che lo avrebbero accompagnato.
Tirò dritto per la sua strada come un uomo che sapeva che quella era la via giusta da percorrere per arrivare alla meta. Cioè l’esempio, la serietà professionale, il coraggio delle proprie scelte, quando altri magistrati lo lasciavano solo e apparivano arrendevoli.
La sua fu, al contrario, una vera e propria guerra di Liberazione, molto simile a quella che egli stesso aveva combattuto dopo l’8 settembre durante la Resistenza antifascista. E da combattente è caduto.
Bisogna tenere vivo il ricordo della sua esistenza e non solo nell’occasione della ricorrenza del suo assassinio, proprio in questi tempi in cui il disfacimento dei valori, il personalismo, e la corruzione sono persino al governo della cosa pubblica.






Il 6 agosto 1985, davanti al portone di casa, viene trucidato il Vice questore di Palermo Ninni Cassarà, la sua colpa è di essere un investigatore moderno e coraggioso, un uomo di Stato che, a fianco di Falcone e Borsellino, lotta contro “cosa nostra”. Prima di lui, sono già caduti il poliziotto Boris Giuliano, i giudici Costa, Terranova e Chinnici, il Presidente della Regione Piersanti Mattarella, Pio La Torre e, subito dopo, il Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro.
Cassarà collabora con Falcone nel cosiddetto “pool antimafia” della Procura di Palermo.
Ninni Cassarà è ricordato per avere dato quel contributo determinante sul fronte investigativo, che consentì di abbattere quel muro di omertà e connivenze che fino ad allora aveva garantito impunità a Cosa nostra. Fu anche grazie alle sue indagini che fu istruito il primo maxi processo contro “cosa nostra”.
Il grande lavoro svolto da Ninni Cassarà insieme a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino resta impresso nel famoso “rapporto dei 162”, una vera e propria radiografia degli schieramenti di mafia e dei delitti compiuti in quegli anni, messo a punto congiuntamente da polizia e carabinieri, che aveva costituito appunto uno dei pilastri portanti del primo grande maxiprocesso alla mafia.
Il  barbaro assassinio di Cassarà, insieme a quello del poliziotto Roberto Antiochia, suo coraggioso e generoso collaboratore, fu una vendetta spietata per i duri colpi inferti alla mafia”.
Quella del 6 Agosto 1985 è' senza dubbio una tra le scene più terribili legate ad un omicidio di mafia, quel giorno la moglie di Ninni Cassarà, Laura, scende 8 piani di scale gridando. In braccio tiene la figlia di 2 anni, Elvira, ha appena assistito dal balcone all'omicidio del marito. Ad ogni piano implora i vicini di aprire la porta e di occuparsi temporaneamente della piccola.  Nessuno apre. Solo all'ultimo momento il gesto pietoso di un inquilino permette a Laura di arrivare da sola al piano terra per abbracciare il marito ormai colpito a morte.
In quello stesso spazio che separa alcuni palazzi di viale Croce Rossa la musica del silenzio di ordinanza si espande nel giorno del 26° anniversario dell'omicidio del vice
questore Cassarà e dell'agente di scorta Roberto Antiochia. Laura Iacovoni Cassarà osserva distaccata le tante strette di mano tra i rappresentanti delle istituzioni locali venuti a deporre le corone di fiori. Insieme a lei ci sono i suoi figli Gaspare, Marida ed Elvira, nel 1985 avevano undici, nove e due anni. Poco più in là ci sono anche Vincenzo Agostino e sua moglie Augusta, insieme a loro c'è don Ciotti.
Prima che morisse nel 2001 Saveria Antiochia, la mamma di Roberto, aveva chiesto al fondatore di Libera di venire al suo posto a ricordare suo figlio.

Genova Piazza Alimonda 10 anni dopo...

«…dobbiamo saper essere coraggiosi e ribelli, ma anche maturi e consapevoli.»
Intervento dell'Associazione Casa Memoria Impastato letto da Giovanni Impastato in Piazza Alimonda in occasione delle manifestazioni di Genova 2011.
Cari compagni, cari amici non è facile essere oggi qui a Genova. Non è facile perché ognuno dei presenti è chiamato proprio qui, in questa piazza, alla propria responsabilità e alla voce della propria coscienza. Quanto qui è accaduto dieci anni fa quando la vita di un ragazzo è stata strappata via dalla violenza di Stato ci ha schiacciato sul reale, sulla realtà di quanto di crudele e raccapricciante stavamo vivendo in quei giorni ed avremmo vissuto nel decennio successivo.
Proprio quel 2001 è stato lo spartiacque, il momento in cui alcuni decisero di accelerare i tempi della storia. Il 2001 è stato anche l'anno dell'11 settembre e, quindi, alla repressione e alla dispersione violenta dei movimenti a livello globale hanno accostato la grande menzogna che avrebbe giustificato guerre, violazioni dei diritti internazionali, limitazioni gravissime delle libertà personali, persecuzioni…. [leggi tutto…]